Il mio Carso - Scipio Slataper

>> domenica 21 settembre 2008

Trieste: per l’anima in tormento che m’hai data




Trieste terra di confine


Trieste crocevia di culture


Trieste terra irredenta



.... concetti forse vuoti per molti fra coloro che leggono queste righe. Concetti senz’anima, stereotipi, ormai, che come tali hanno perso significato e valore. Ma per coloro che qui sono nati, che hanno ben piantate le loro radici nella terra rossa del Carso, sono brandelli di memoria collettiva, metabolizzata tal punto da essere parte integrante del DNA.



Terra di confine, bagnata e ribagnata dal sangue di tanti uomini che combatterono sotto diverse bandiere, ma tutti con un cuore che cesso’ di battere, una mente che cesso’ di pensare. Molti andarono al fronte perche’ costretti, alcuni lo fecero per scelta, per dovere morale, per l’Idea.



Crocevia di culture, come tutti i porti di mare Trieste ha visto arrivare, partire o rimanere genti diverse, ognuna col proprio bagaglio culturale ricco o povero che fosse; chi si e’ fermato ha mischiato il suo personale bagaglio alla cultura locale arricchendola.


Durante l’amato-odiato periodo di dominazione austro-ungarica i posti di ritrovo come il Caffe’ San Marco, il Tommaseo o il Tergesteo pullulavano di gente e di idee. La ferrovia che la collegava direttamente con Vienna favoriva il flusso di genti e notizie con l’Europa centrale tanto da rendere dinamico un mondo che di per se’ non lo era., ma insito nell’ideologia repubblicana di Garibaldi.






Come movimento politico nasce dopo la III Guerra di Indipendenza, sostenendo e rivendicando il ritorno all’Italia di Trentino e Friuli Venezia Giulia. Con la nascita della Triplice Alleanza, nel 1882, queste annessioni diventano quanto meno improbabili ed il movimento irredentista, vedendo traditi gli scopi a cui tendeva, diventa antigovernativo. Il movimento finisce con la I Guerra Mondiale: Trieste e l’Istria tornano ad essere italiane, anche se della cosi’ detta “vittoria mutilata” fa parte la perdita della citta’ di Fiume.



“Trieste da’ ai suoi figli un’anima in tormento e per questo e’ amata….”




beh, mi ritrovo in questo pensiero.



Sara’ la roccia bianca e sofferta del carso, che si nasconde sotto l’erba per ingannarvi; sara’ la bora che fustiga il viso e schiarisce le idee; sara’ la nostra storia ed il miscuglio di razze che ci portiamo nel sangue… Ma il tormento, che e’ si’ sofferenza e struggimento, nasce dalla ricerca continua e costante ed esplode da queste pagine rese incredibilmente e stranamente attuali dall’energia, dalla forza, dall’esuberanza e dall’entusiasmo di Slataper, come se la giovinezza non conoscesse confini temporali, come se gli ideali nati da un cuore che pulsa al ritmo della vita fossero immutabili nel tempo.




Terra irredenta .... non liberata dalla dominazione straniera, termine coniato dallo scrittore Vittorio Imbriani.



“Il mio Carso” è una specie di diario e le sue pagine non si leggono: si lasciano entrare in noi e si vive con lo Slataper bambino che per raggiungere un allettante frutto si allunga sul ramo come un verme, sfidando le leggi della fisica e della dinamica. Con il giovane trafitto dal suicidio della sua piu’ cara amica e alla disperata ricerca di una risposta ai suoi “Perche’?”, alla ricerca di un colpevole, fosse anche egli stesso poco importerebbe: i vent’anni esigono risposta. Si comprende la spasmodica ricerca di identita’, italiano imprigionato in quello che sente come il pesante giogo austriaco, straniero in terra natia. La ricerca di un’identita’ che vada al di la’ della sua sanguigna appartenenza al Carso.


Puo’ sembrare un balbettio, ma e’ un balbettio che arriva fino al cuore ..... un susseguirsi di pensieri, di ricordi, di odori, di sensazioni estremamente vivi e reali, scritti da una penna giovane e come tale impetuosa.





Scipio Slataper



Scipio Slataper nacque a Trieste nel 1888, famiglia di ceto borghese, padre di origine slava e madre italiana. Dopo il liceo si trasferisce a Firenze ed inizia a scrivere per la rivista letteraria “La Voce” fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini e che vede tra i suoi collaboratori piu’ importanti personalita’ come Croce e Gentile che le infonderanno il loro idealismo.



La società civile viene setacciata per sviscerarne i problemi, per penetrarla, capirla e per riuscire cosi’ a diffondere ed a far capire concetti nuovi. Il distacco anche linguistico fra intellettuale e popolo e’ annullato abbandonando il classico romanzo per parlare, invece, di vita vissuta con uno stile che assomiglia sempre di piu’ alla trasposizione di pensieri e come tale a volte manca di un nesso logico fra le frasi.




In antitesi a Svevo, definito da qualche critico “un uomo nato vecchio, e morto vecchione”, Slataper e’ la “gioventu’”, la “testa matta” capace di grandi slanci e di grandi sofferenze spirituali che, vista la corporalita’ del suo sentire, diventano addirittura fisiche.




Ma Slataper è rimasto un potenziale grande scrittore: muore combattendo per quell’ideale di italianita’ nel quale credeva, a soli 27 anni sulle alture del Podgora (sotto il Monte Sabotino, vicino a Gorizia) nel 1915, entrando cosi’ a far parte di quella schiera di intellettuali che, inghiottiti dalla guerra, lasciarono il mondo orfano della loro testimonianza ed eredita’ culturale.





(N.d.A.: ho scritto questo pezzo come recensione al libro di Slataper nel lontano 2003 ed è presente già da anni sull’altra mia “creatura”, Planando. Se lo trovate in giro, quindi, non datemi della plagiatrice… plagio solo me stessa)

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Trieste, il mare, le fodre e … i pinguini

>> venerdì 12 settembre 2008

Uno dei ricordi più intensi e rassicuranti delle mia infanzia è quello della domenica mattina: che tirasse bora o che splendesse il sole era rituale la passeggiata con il nonno lungo le Rive.



Col nonno solo a piedi si andava e per “fodre“, le stradine interne e poco frequentate come le fodere di un cappotto. Passavano sotto il Colle di San Giusto, senza vedere i resti della Tergestum romana, né la cattedrale romanica o il Castello (costruito a tappe tra la fine del 1400 ed il 1600).



Da lassù la vista sarebbe stata bellissima, con il golfo davanti agli occhi, magari un bora leggera a sferzare il viso, lo sguardo fino alle montagne magari ancora innevate, con Lignano e Grado come puntolini in riva al mare; davanti solo acqua fino all’orizzonte e, dall’altra parte, la costa istriana. Noi niente! Al buio dovevamo stare! Che così si soffre meglio! Nelle stradine strette… bah!



E arrivavamo in Cavana, un borgo abitato un tempo dalla nobiltà ed ora ricettacolo di gente di malaffare, di visi segnati dalla vita, dalla galera e dalle umane miserie (”Cavana” non veniva mai detto ad alta voce, ma sempre sussurrato o sparato come un insulto). Costeggiavamo il borgo, sicuri ‘che tanto lì accanto c’era pur sempre la Curia Vescovile, e già ci si apriva davanti il mare.



Chissà perché, sin da quei tempi ed ancora oggi, quando guardo il mare, che sia pure dalla finestra di casa, tiro un sospiro come fosse di sollievo … Rassicurante via di fuga sempre pronta.. chissà?


Tanto per allungar la strada giravano verso sinistra, quasi a tornare indietro, e … niente mare, ancora, ma via del Lazzaretto Vecchio, quella ricordata da Saba “il vecchione”, a detta di Magris (e di molti altri .. me compresa..)



C’è a Trieste una
via dove mi specchio,
nei lunghi giorni di
chiusa tristezza;
si chiama Via del
Lazzaretto Vecchio


e, per giove, finalmente il mare!



Sbucavamo davanti alla Società Canottiera e, se avevo fortuna e se il tempo lo permetteva, il nonno mi portava a guardare i ragazzi che si allenavano, fuori, verso largo, allenamento che finiva sempre con gli equipaggi che si rovesciano in mare per il bagno finale con applauso del pubblico domenicale.



Alla fine ci dirigevamo verso … Santa Maria del Guato (il ghiozzo piccolo e pieno di lische ma tanto buono per il brodetto con la polenta!), nome dissacrante per il mercato del pesce (perché tale era) ma cavolo se non somigliava ad una chiesa, con quella torre come un campanile con tanto di campana in cima! E finalmente l’acquario cittadino.




Non entravamo… l’appuntamento era fuori per me come per tanti bambini. L’appuntamento era con Marco.



Marco era un pinguino, ma la sua storia non la sapevo a quel tempo e quindi anche voi aspetterete per conoscerla





Tutti i giorni, domeniche comprese, si faceva la sua bella passeggiata lungo le rive, in compagnia del suo custode preferito (custode dell’acquario, a dir il vero): Marco davanti, libero e solenne … spocchioso oserei dire, il custode dietro come un maggiordomo. I bambini lo accoglievano con strilli e richiami, i grandi lo guardavano sempre incuriositi e stupiti, qualche turista (pochi, molto pochi) faceva delle foto e se Marco se ne accorgeva si fermava e (giuro!) si metteva in posa. Se era di buonumore si lasciava accarezzare da quelle manine timorose e irruenti al tempo stesso, che scivolavano giù per le sue piume lisce e nere, e se le carezze valute non arrivavano, aveva un modo tutto suo per rubarle: fingeva di zoppicare…. Oh! Ne era capace, vi assicuro! Che disgraziato! Si dice che tutto fosse nato da un incidente: senza volerlo un guardiano, un giorno, gli pestò una pinna e, immediatamente, lo prese in braccio per consolarlo e chiedergli scusa. Zampa -zoppia - coccole: semplice e sicuro, il metodo



Se decideva poi che di carezze ne aveva ricevute a sufficienza, due beccate alla rinfusa e le mani di colpo sparivano, magari con qualche brevissimo pianto se la beccata andava a segno, a non era mai eccessiva, la beccata, serviva solo a dire “Ora basta che c’ho da fare!”.




Io pure ma la presi, sotto gli occhi attenti del nonno, che non bastarono ad evitarmela, e il risolino sotto ai baffi del guardiano. Ma l’amore per Marco non cessò: come un’amante tradita mi portai per anni nel cuore l’affronto, senza versare una lacrima o lasciarmi sfuggire un “AHIA, porcazzozza!”… eh .. le donne di carattere si vedono fin dall’infanzia.



Come un ammiraglio che passa in rassegna le sue truppe Marco s’incamminava di solito lungo il Molo Audace, percorso non estremamente facile per le sue gambe corte, con quei pietroni disassati dalle mareggiate, ma aveva una meta precisa: andava a farsi il bagno. Si buttava giù dal molo e se ne stava a dondolarsi sul pelo dell’acqua o faceva acrobazie incredibili, godendosi sia il suo elemento naturale, sia le facce degli spettatori che come ebeti lo stavano a guardare. Il ritorno sul molo era per lui impossibile: gli scalini alti non corrispondevano alla misura dei suoi arti inferiori, doveva quindi andarci il guardiano a recuperarlo.




CHI ERA MARCO


Pinguino Spheniscus Demersus: non Marco ovviamente, ma un suo parente


Pinguino Spheniscus Demersus: non Marco ovviamente, ma un suo parente




1953: la motonave Europa del Lloyd Triestino ritorna dal Sud Africa. A bordo un passeggero decisamente particolare: uno Spheniscus demersus, un pinguino sudafricano neppure particolarmente bello.



Dicono fosse stato trovato, solo, abbandonato e sicuramente destinato alla morte, da alcuni marinai e “salvato” portandolo a bordo. Forse i marinai videro semplicemente un accattivante cucciolo e se ne innamorarono. Chissà? Di certo c’è che il pinguino si fece tutti i 50 giorni di viaggio, sopravvivendo chissà come, sicuramente accudito con amore e con tutte le cure possibili, nascosto ai 400 passeggeri ed anche alla maggior parte delle 200 persone dell’equipaggio ufficiali compresi.



Era normale, per i marittimi, portarsi a casa, dai viaggi, degli animali “strani” (stramba Trieste!) -ricordo perfettamente l’invidia che noi, ragazzi del quartiere, provavamo per “Gianni della simia” (Gianni della scimmia), un ragazzino col padre che “navigava” che girava con una bertuccia sulla spalla- certo che di pinguini in giro non se n’erano ancora visti.



E poi, come tenerlo in casa? E’ sicuramente la domanda che anche quei marinai si fecero. Unica soluzione possibile confessare il “furto” all’autorità. Niente punizioni, niente ramanzine, ma a qualcuno venne l’idea giusta: farne dono all’Acquario cittadino. Ne parlò “Il Piccolo”, quotidiano di Trieste, con grande rilievo, ma ancora nessuno sapeva il carattere da star dello Spheniscus demersus in questione, carattere che sarebbe stato determinante nel dargli la notorietà assoluta.



Gli costruirono una vasca adeguatamente grande all’interno dell’Acquario, che usava volentieri sia per fare le sue bravate da provetto nuotatore, sia per schizzare (con enorme soddisfazione!) i visitatori che lo guardavano dai bordi. Come per i suoi bagni in mare, per entrarci, nella vasca non aveva alcun problema: un bel tuffo “a clanfa” (sapete? Di quelli che provocano un’innondazione per un raggio di 10 metri…) ed il gioco era fatto. Diverso l’uscirne, ma bastava un suo versaccio roco e sgraziato ed arrivata il “maggiordomo” di turno a tirarlo a secco.



Gli diedero un nome, Marco.. Chissà perché proprio quello! E lui, sicuramente con un ritardatario imprinting, visse uomo fra gli uomini per 31 anni. Sì .. 31 anni, mentre la vita media di un esemplare della sua specie è di 20, 25 anni, beccandosi generazioni di coccole da manine sostituite da altre manine, finendo sui giornali di mezzo mondo grazie ai turisti (pochi magari) che se lo vedevano davanti, arrogante come sempre, tra i palazzi austrungarici delle Rive.



Fatto “uomo” (era il 1964), gli amici pensarono anche a fargli conoscere le gioie dell’amore e dal Sud Africa arrivò una coppia di Spheniscus demersus, una coppia perché in quella specie i maschi sono perfettamente uguali alle femmine .. in apparenza. Ma non c’è storia: Max (il maschio) le prendeva di santa ragione, Lily (la femmina) non veniva degnata neppure di uno sguardo. D’altra parte, visti con i suoi occhi, quelle bestie erano ben strane! Eppoi non sapevano esprimersi, né comportarsi! … Meglio turisti, bambini e foto…



Marco morì da “uomo” com’era vissuto: tra le braccia del suo guardiano preferito, coccolato ancora, avvolto teneramente in una coperta, con sicuramente sopra il suo viso gli occhi pieni d’amore e di lacrime di uno degli amici che lo avevano amato.



(Dall’autopsia risultò che Marco era una femmina. Nel 1986 il governo del Sud Africa inviò a Trieste una coppia di pinguini, quasi a perdurare la memoria di Marco: Zigo e Zago che hanno messo su famiglia facendo nascere Domino e Pulcinella……. Ma Marco rimane irripetibile e indimenticabile)

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La Casa delle Bisse

>> giovedì 11 settembre 2008





Costruita in via San Lazzaro nel 1771 dall'architetto Bobolini la "casa delle Bisse" non ha solo una particolarità, ma addirittura quattro! La prima è impossibile non vederla! Sopra il portone d'ingresso un gruppo scultoreo: una biscia (la bissa) si scaglia a predare un pomo, ma tre aquile stanno si stanno scagliando contro di lei dall'alto. Le tre aquile sono la Russia, la Prussia e l'Austria che, unite nella Santa Alleanza, stanno combattendo Napoleone Buonaparte (la bissa) lanciato alla conquista del mondo (il pomo).



Altra particolarità ben visibile è rappresentata dall'abbaino centrale, ornato da inusitate tendine in gesso.



La terza stramberia dell'edificio è visibile solo entrando nel portone: una palla di cannone è incastrata in una parete e sotto una targa: "Hoc me ornamento galli affecerunt MDCCCIX". Di facile comprensione, lo scritto non trova però riscontro nella storia triestina: nel 1809 non vi fu nessun evento di guerra che possa giustificare un bombardamento del centro della città!



Ultima delle quattro stranezze (ma non certo la meno strana), l'altra targa posta nel portone, questa invece ben fondata nella realtà dei fatti: "Aedes anno MDCCLXXI ob aque inopiam aceto absoluta". ... La casa è stata costruita utilizzando, nella preparazione delle malte, aceto e non acqua a causa di una grave siccità che, in quell'anno, colpì la zona.
















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